Dott.ssa Benedetta Mulas
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Una celebre canzone del gruppo Lo Stato Sociale ci aiuta a porre interessanti interrogativi sulla visione del lavoro condivisa da alcuni: vivere per lavorare o lavorare per vivere? Il secondo punto rappresenta la caratteristica alla base della dipendenza da lavoro o workaholism, un fenomeno associato alla sfera ossessiva compulsiva.
La filosofia del vivere per lavorare: segni principali
Il termine workaholism deriva dall’inglese e significa letteralmente “ubriaco da lavoro”. Già questa prima definizione ci permette di cogliere i tratti salienti di questa problematica che rientra nei disturbi da dipendenza senza sostanza, pur condividendo alcuni aspetti tipici della tossicodipendenza. Il termine, infatti, sottolinea proprio la corrispondenza con le azioni comportamentali tipiche degli alcolisti che tendono a incentrare l’intera esistenza attorno all’abuso della sostanza.
Nel caso del workaholism, però, non sono presenti sostanze né azioni delimitate. La dipendenza si attua attraverso una routine orientata esclusivamente al lavoro, che occupa gran parte della giornata portando la persona ad escludere attività importanti e a trascurare altri ambiti di vita fondamentali, come quello familiare. Dunque a differenza di altri disturbi della stessa categoria come la tossicodipendenza, nel workaholism non è presente una gratificazione diretta ma l’assunzione di uno stile di vita orientato allo sforzo, una vera e propria impostazione mentale che caratterizza l’individuo in maniera prolungata e tendenzialmente persistente.
Alcuni clinici tra cui Robinson (1998) l’hanno definita welldressed addiction, in italiano “dipendenza ben vestita”, per sottolineare la difficoltà nel riconoscimento di un disturbo che a suo avviso rientra nella sfera ossessivo compulsiva.
Cause ed elementi tipici del workaholism
Altri autori tra cui Fassel e Guerreschi evidenziano inoltre come la problematica sembri aumentare all’interno della popolazione generale, con una forte predominanza nel genere maschile. Questi ultimi hanno individuato tre fasi nell’evoluzione del disturbo, che inizia con un primo stadio in cui l’individuo passa da un marcato utilizzo dell’attività lavorativa, per poi sviluppare una vera e propria dipendenza. In questa fase inizia a dedicare un tempo eccessivo quotidiano alle attività professionali e a modificare il proprio stile di vita in funzione di tali obiettivi.
Gradualmente la persona viene assorbita dal flusso lavorativo al punto da distaccarsi da ogni altro interesse, incluso quello relativo ai principali ambiti di vita come quello sociale e familiare. Parallelamente inizia ad accusare i primi segni dovuti alla stanchezza fisica, che possono interessare la sfera fisiologica come quella dell’umore, dalla stanchezza a episodi depressivi.
Nella seconda fase, proprio come avviene in altre forme di processi dissociativi, l’individuo finisce con sperimentare un allontanamento sempre maggiore dalla sfera emotiva e, talvolta, anche dai più basici bisogni fisiologici tra cui il sonno. Questo secondo step è definito stadio critico e può rendere difficile diverse operazioni routinarie come prendere sonno o addormentarsi senza sperimentare sentimenti di senso di colpa al risveglio. Ma il punto più saliente di questa fase è rappresentato da un aumento della presa in carico lavorativa e all’esaurimento delle energie fisiche, che spesso compromettono fortemente il ciclo sonno veglia e il funzionamento generale del soggetto.
Non di rado, come accade in altre forme di dipendenza, la persona assume un atteggiamento negazionista e manipolatorio, trovando giustificazioni esterne come motivazioni alla base del proprio comportamento. Così facendo spesso trasmette nell’altro un’immagine positiva di sé, alimentata da forti livelli di dedizione professionale che la persona ritiene intrinsecamente associati al valore personale.
L’ipotesi è che sia proprio una mancata interiorizzazione di un’immagine di sé positiva a determinare questo disturbo, in cui spesso la persona ha un modello operativo interno prettamente decentrato, ovvero orientato all’esterno. È l’altro ad attribuire o meno il lavoro personale, dove per l’altro ci riferiamo non tanto al giudizio sociale, quanto a un modello operativo interno basato sul fare per valere.
L’ammirazione espressa dall’interlocutore non fa altro che ridurre il senso di colpa del primo, contribuendo ad alimentare un circolo vizioso che sfocia in una terza e ultima fase definita cronica.
In questo stadio il lavoro rappresenta la costante attorno alla quale ruota l’intera esistenza della persona. Le relazioni con i familiari, a lungo trascurate, sono ormai sature ed è più difficile che l’individuo scelga di integrarle alla propria routine come canale alternativo.
Persino i rapporti con i colleghi, che nelle prime fasi la dipendenza da lavoro poteva aver incentivato, diventano più difficili a causa dell’eccessiva competitività e, ancor più spesso, dell’atteggiamento aggressivo e individualista che la persona può assumere. Allo stesso tempo possono palesarsi veri e propri disturbi psichici o organici che a loro volta ostacolano la sfera relazionale rendendo ancor più difficile per la persona intravedere una possibile soluzione alternativa.
La psicoterapia della dipendenza da lavoro
Sembra che nel workaholism il lavoro agisca per la persona come una via di fuga, come una soluzione per rifuggire da emozioni e responsabilità potenzialmente fonte di disagio, nonché dal confronto intimo con l’altro.
La psicoterapia per il trattamento della dipendenza da lavoro mira a fornire vie di fuga alternative, più funzionali, che permettano all’individuo di agire nella sua totalità, senza limitarsi ad un unico ambito di funzionamento. Ma soprattutto il lavoro psicoterapico consente di favorire l’apprendimento di strategie più idonee alla gestione delle emozioni negative.
Questo particolare intervento risulta fondamentale per sdoganare la costruzione di un’immagine di sé positiva, dove l’apparente primato dell’etica nasconde in realtà un’identità fragile, che utilizza il lavoro come strumento per auto affermarsi. L’immagine di sé è correlata alle esperienze della storia di vita del soggetto e spesso dall’apprendimento di modelli valoriali basati su tali presupposti, come testimoniato dalla familiarità della dipendenza da lavoro riscontrata in ambito clinico.
Parallelamente si lavora sul concetto di perfezionismo e sui risvolti che comporta nella vita quotidiana, non solo in ambito professionale ma anche relazionale.
Senza contare che la routine tipica di chi soffre di workaholism è caratterizzata da un flusso costante di impegni lavorativi in cui non sono ammessi spazi di riflessione per comprendere eventuali problematiche personali. In tale ottica la psicoterapia, che spesso nella fase iniziale viene richiesta solo per superare effetti collaterali come l’insonnia o la comparsa di disturbi dell’umore, rappresenta un’occasione preziosa di confronto. Pertanto, nella maggior parte dei casi, si configura come un mezzo privilegiato per esperire le emozioni e i contenuti a lungo evitati e aumentare le capacità di introspezione del paziente.
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