Dott.ssa Benedetta Mulas
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Nel primo ‘900 grazie al lavoro clinico svolto presso la clinica Burgholzli Jung si rese conto di quanto, a discapito dei casi noti, le psicosi latenti rappresentassero un fenomeno rilevante nella storia dei propri pazienti, sia sul piano statistico, sia su quello semantico. È proprio sul significato dei sintomi psicotici che il padre della psicologia analitica ha fornito interessanti contributi, tutt’ora oggetto di lavoro nell’attuale metodo psicoterapeutico.
Un approccio rivoluzionario ai fenomeni psicotici
Secondo l’autore le psicosi si manifesterebbero a seguito di una rottura del meccanismo di compensazione tra coscienza e inconscio. La vera rivoluzione apportata da Jung nel campo della psicoanalisi consiste nella revisione del rapporto tra paziente ed analista; era infatti convinto della possibilità di curare con successo e di guarire completamente i disturbi psicotici andando alla ricerca del “senso” e del “significato” nascosti nelle verbalizzazioni dei suoi pazienti, anche se in prima analisi risultavano discorsi di persone apparentemente “folli”.
Jung introdusse il termine di “Archetipo” inteso come immagine primordiale. Gli archetipi sono simboli espressi nei sogni: si ritrovano, quasi identici, nei miti e nelle religioni di ogni civiltà, così come nelle rappresentazioni artistiche e vanno a comporre l’inconscio del singolo, e quello collettivo, determinandone lo “psichismo”, l’attività psichica, i valori e i modelli di comportamento ereditati e diventati in seguito istintivi.
Lavorare con gli archetipi, abisso e DNA psichico della specie, richiede non solo conoscenze cliniche ma anche una sorta di capacità immaginativa, una plasticità interpretativa del pensiero, come sottolineato dal celebre psicoanalista: “Chi guarda dentro, si sveglia”.
Jung voleva realmente comprendere il senso del disagio psichico e delle psicosi che portano le persone ad allontanarsi dal piano concreto della propria esistenza. Diede così vita alla psicologia analitica, il suo scopo era quello di liberare il soggetto da psicosi e disturbi patogeni, riportandolo così sul piano della realtà. Aveva notato inoltre che un’alta percentuale della popolazione poteva in pratica essere portatrice di psicosi latenti a livello inconscio.
In superficie queste psicosi si possono osservare con stati e stili di vita esageratamente “normali”. Ad esempio vari stili di vita che si possono definire estremi, quali privazioni di vario genere, astinenza, un’alimentazione sbagliata, sregolata e non salutare, la dedizione totale ad una causa in cui identificarsi ecc. Azioni che in generale erano ritenute, dal soggetto in questione, normali e guidate da una totale razionalità; portandolo di conseguenza a ritenersi nel giusto proprio perché guidato dalla ragione. Jung stesso infatti era solito dire: “Quanto più splendente è una persona, tanto più è oscura la sua ombra”.
Per Jung il comportamento di una persona è condizionato sia dalla sfera individuale, le personali aspirazioni e desideri, sia dalla sua appartenenza alla razza umana intesa come l’essere membro di una collettività.
Dopo un periodo di collaborazione e profonda stima reciproca ruppe con Freud; rifiutava la teoria di quest’ultimo sul pansessualismo, secondo la quale alla base di tutti i comportamenti psichici della specie ci fosse l’istinto sessuale, convinto invece, che ci fosse ben altro, di più profondo, da dover scovare ed analizzare. La libido secondo Jung non era solo l’energia sessuale che si scarica una volta raggiunto l’oggetto del desiderio ma tutta l’energia psichica.
La funzione delle psicosi nell’ottica junghiana
Nella psicosi, quindi, il meccanismo di compensazione si rompe o interrompe e l’inconscio, che di per se’ è caotico e privo di organizzazione, si impadronisce dell’ IO. Di conseguenza l’IO, ormai indebolito sprofonda dell’inconscio collettivo: patrimonio arcaico della specie, derivante dagli archetipi, innati e istintivi.
Durante il trattamento però, attraverso lo studio degli archetipi, dell’inconscio collettivo e di quello individuale, costituito da contenuti un tempo consci, poi rimossi, la psiche tende verso un processo di “individuazione” con lo scopo di liberare il Sé e consiste nell’approssimarsi dell’IO al SE’, attraverso delle tappe, che Jung riconobbe e quindi assimilò, molto simili a quelle della trasmutazione alchemica, fino alla tappa finale: la Rubedo, il fine dell’individuo: l’incontro con l’archetipo del Sé. Secondo l’autore solo nel caso in cui l’individuo raggiunge tale incontro, riesce a costruire un Io allineato con il proprio Sé.
Per Jung, dunque, la psicoterapia va intesa come un dialogo tra la mente “malata” del paziente e quella “normale” del terapeuta, quasi di stampo socratico; un portare alla luce una verità, anch’essa latente, senza dimenticare la base dinamica dei processi psichici che interessano la mente umana. Ciò rimanda all’importanza di mantenere un ascolto costante, uno scambio, un desiderio di capire, lo sviluppare empatia con chi soffre senza bollare o etichettare in maniera permanente il paziente, poiché, sempre secondo Jung, la verità del paziente ha maggior importanza rispetto a quella teorica. In tale ottica la cura stessa proviene dal malato, attraverso il suddetto processo di individuazione, attraverso il coinvolgimento del terapeuta nella relazione analitica e tramite le giuste domande, in modo che il paziente non opponga nessun tipo di resistenza vanificando così lo sforzo congiunto.
Jung spostò di conseguenza l’attenzione dai sintomi alla personalità, che riteneva potenzialmente curabile, guaribile e trasformabile. Una diagnosi, in conclusione, basata non sui sintomi ma sull’indagine della storia unica e personale del paziente. Ed è solo da lì che, in ottica junghiana, è possibile iniziare una vera e propria terapia, evidenziando come quello che realmente conta è l’intenzione, il desiderio di guarire e di essere guarito, anche in condizioni nelle quali l’esame di realtà appare irrimediabilmente compromesso.
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