Dott.ssa Benedetta Mulas
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Il gioco rappresenta un diritto inviolabile per ogni bambino, nonché un momento prezioso che consente ai più piccoli di acquisire importanti informazioni sulle modalità di funzionamento proprie ed altrui. Si tratta di un’azione che può accompagnare l’individuo in tutto l’arco di vita e che può rivestire un ruolo cruciale anche nel processo psicoterapeutico.
Non solo pelouche e marionette
Le attività legate al gioco influenzano fortemente lo sviluppo cognitivo, emotivo, fisico e sociale dei bambini, con ripercussioni anche in età adolescenziale e adulta. Le modalità attraverso cui si attua variano nel tempo, a seconda dei diversi step evolutivi e con il progressivo raggiungimento della maturazione psicofisica dei più piccoli.
Il gioco consente di acquisire gli strumenti con i quali il bambino interpreta gli eventi esterni ed interni e le modalità con cui relazionarsi con l’altro, rendendo possibile interiorizzare il senso di autocontrollo e la creazione di una propria rappresentazione della realtà. A livello neuropsicologico il gioco consente di rafforzare i vari domini cognitivi, influenzando abilità fondamentali quali il recupero mnestico e l’attenzione selettiva, ma soprattutto consente all’individuo di allontanarsi dai condizionamenti esterni e di dedicarsi ad attività piacevoli.
Il divertimento, tuttavia, rappresenta solo una delle molteplici caratteristiche del gioco, da intendersi anche come un momento volontariamente improduttivo, cioè privo di un determinato fine, alimentato da motivazioni interne che non richiedono sollecitazioni da parte di genitori o altre figure significative e, infine, circoscritto nel tempo e nello spazio, elemento centrale che aiuta il bambino a orientarsi nel suo ambiente.
Al contempo, il gioco riveste per il bambino un’attività cruciale per estraniarsi dal contesto che lo circonda. Per questo motivo viene spesso utilizzato in terapia soprattutto con bambini con difficoltà di socializzazione o con tratti oppositivo provocatori, consentendo al terapeuta di creare uno spazio diverso rispetto alle caratteristiche che contraddistinguono il setting clinico o altre situazioni sociali quali l’ambiente scolastico. In tale senso le attività ludiche consentono al bambino di distaccarsi dalle norme imposte nella vita di tutti i giorni e immedesimarsi in un mondo fantastico dove ogni cosa è possibile. Giocando a “fare finta di” il bambino si prepara alla vita da adulto, esperendo ruoli e punti di vista alternativi che gli permettono di conoscere e interagire con il mondo circostante.
Dallo sviluppo psicomotorio al setting clinico
Il gioco rappresenta pertanto uno strumento d’elezione per favorire il processo di maturazione psicofisica dei più piccoli. Secondo Jean Piaget le attività ludiche gli consentono di manipolare dapprima il proprio corpo e in seguito gli oggetti, aumentando le connessioni causali e migliorando la coordinazione sensomotoria. Non è tutto, perché secondo Piaget, che attribuì al gioco un ruolo primario nelle sue ricerche sullo sviluppo cognitivo del bambino, le attività ludiche facilitano lo sviluppo di importanti funzioni quali la memoria, la capacità di focalizzare l’attenzione, le abilità sociali e la costruzione di schemi cognitivi e percettivi fondamentali per la vita adulta. Ne consegue che bambini privi di tali possibilità possono risentire fortemente degli effetti di tale mancanza in termini di capacità attentiva, mnemonica, relazionale e, più in generale, di capacità di relazionarsi efficacemente con l’ambiente che li circonda.
Diversamente Vygotskij ribadì l’importanza del gioco non solo in termini di sviluppo cognitivo, ma anche affettivo. Secondo l’autore le attività ludiche consentono ai più piccoli di fronteggiare la tensione che emerge in tutte quelle situazioni in cui il bambino non può soddisfare i propri bisogni e desideri; è tramite la fantasia che improvvisamente trasforma un pezzo di legno in una bambola o una pentola in uno strumento musicale, svincolandosi dall’utilizzo normativo degli oggetti. Con l’aumentare dell’età ciò gli consente di passare dalla trasformazione simbolica degli oggetti a quella verbale, acquisendo una maggiore varietà di utilizzi e significati.
Altri autori come Winnicott hanno posto in risalto il ruolo del gioco come area transizionale tra la mamma e il bambino; nello specifico il piccolo cresce all’interno di un ambiente finzionale che appartiene alle figure di riferimento e rappresenta una sorta di ponte connettivo tra il proprio mondo psichico e la mente adulta, basato sullo scambio di sensazioni condivise secondo uno specifico registro corporeo ed emotivo.
Pertanto il gioco rappresenta uno strumento che non dovrebbe mancare in un percorso di psicoterapia rivolto a individui in età evolutiva, soprattutto nei primi anni di vita, ma non solo, rendendosi talvolta utile anche nel processo di cura e cambiamento con persone di età adulta. Anche in questo caso, infatti, attraverso l’attività ludica il paziente percepisce la possibilità di esporsi e raccontarsi senza mostrarsi vulnerabile, ponendo in luce contenuti verbali e motori che in altri casi sarebbe difficile tirar fuori in modo diretto, con richiesta esplicita da parte del terapeuta. In questo modo il giovane paziente è posto in una condizione facilitante per esprimere emozioni e vissuti personali inizialmente su un piano finzionale che, gradualmente, viene spostato sul piano del reale.
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