Dott.ssa Benedetta Mulas
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Il grande cambiamento sociale attuato negli ultimi decenni in tema di pari diritti e tutela delle donne non sembra andare di pari passo con i numerosi episodi di violenza agiti nei confronti della popolazione femminile. L’abuso fisico e psicologico della donna segue una scala di intensità variabile fino a sfociare nel femminicidio, rappresentando un fenomeno sorretto da specifici meccanismi psicologici di base.
Un fenomeno dai mille volti
Non è semplice elaborare una stima accurata di questo fenomeno in quanto la maggior parte delle statistiche si basa su denunce o episodi di cronaca nera, trascurando un’ampia fetta di realtà che troppo spesso rimane taciuta o confinata all’interno delle mura domestiche.
Senza focalizzarci sulla percentuale di episodi analoghi, è importante sottolineare che esistono diversi tipi di violenza: gli abusi possono essere agiti in forma individuale o di gruppo, in modo impulsivo o strategico. E ancora, è possibile differenziare la violenza di tipo antisociale, basata sulla visione della donna come priva delle caratteristiche tipicamente umane legate alla dignità e al rispetto, da quella da fallimento della grandiosità narcisista, ovvero attivata dalla percezione che l’altra abbia in qualche modo intaccato le qualità e il valore dell’uomo, meritando per questo un atto punitivo.
Un altro aspetto da considerare riguarda la dimensione transgenerazionale della violenza. Autori come Otto Kernberg hanno evidenziato come bambini cresciuti all’interno di famiglie abusanti tendono a sviluppare un rapporto di dipendenza dalle figure genitoriali e a replicare lo stesso modello appreso nell’ambiente esterno, mentre Norwood ha sottolineato, nel caso di bambine cresciute con padri violenti, una naturale tendenza nel ricercare partner con le medesime qualità aggressive legate al primo modello maschile da esse interiorizzato. Il meccanismo psicologico dell’identificazione spiega il motivo per il quale molte donne con una storia personale di questo tipo accettano costantemente abusi da parte dell’altro senza denunciare o mettersi al riparo.
L’apprendimento di modelli relazionali basati sull’aggressività si riflette anche sulla difficoltà, da parte dell’uomo, di trovare strategie che gli permettano di dialogare con l’altra escludendo forme di abuso. Questo pensiero è stato magnificamente sintetizzato da Lacan, il quale affermava “Ciò che si può produrre in una relazione interumana è o la violenza o la parola”, evidenziando come casi di violenza di genere sottendano l’impossibilità di entrare in contatto paritario con l’altro; difficoltà alimentata da un odio irriducibile nei confronti della libertà dell’Altro di cui la donna incarna il massimo potenziale libertario.
Contrastare la violenza di genere: dall’educazione alla psicoterapia
Per contrastare tale fenomeno sono in corso diverse iniziative sociali volte a promuovere una cultura caratterizzata dalla visione paritaria della donna. Malgrado le differenze tra i vari progetti attuati in tale senso, l’elemento comune riguarda la validazione dell’Altro come diverso da Sé, elemento mancante nelle relazioni violente dove l’uomo percepisce l’Altra come qualcosa di sua proprietà. A livello psicologico questa mancata distinzione tra il Sé e l’Altro trae le sue radici nella teoria junghiana di Animus e Anima.
Secondo l’approccio psicoanalitico in ognuno di noi convivono due entità: una parte maschile e una femminile che non sempre l’uomo riesce ad esprimere ma che in molti casi rigetta. Questo meccanismo intrapsichico perde la sua natura proiettandosi nella relazione con la donna in carne e ossa in quanto annientare l’aspetto femminile rappresentato dalla donna significa uccidere una parte di sé. Molti autori di episodi di cronaca nera si trasformano in assassini in quanto non riescono a tollerare la presenza interiore della propria parte femminile, trovando nell’abuso fisico ed emotivo o nel femminicidio l’unica strategia per confermare la propria identità maschile.
L’agito in questi casi assume la forma di estrema soluzione per convalidare la propria visione di sé come potente e superiore, limitando il rapporto con l’altro a una mera interazione agonistica fondata su processi cognitivi di natura dicotomica del tipo giusto e sbagliato, vincitore e vinto. Tale visione dicotomica impedisce allo stesso aggressore di elaborare tutte le conseguenze e le variabili legate al proprio comportamento, causando spesso profonde ferite alla propria persona come accade in episodi di cronaca nera nei quali il primo riversa la propria furia omicida non solo sulla donna ma anche sui figli. Si tratta di veri e propri atti di violenza autodiretti, che l’uomo attiva contro sé stesso e che prendono forma nella figura concreta della donna.
La psicoterapia può aiutare a riconoscere tali dinamiche mentali offrendo alla persona la possibilità di conciliare Animus e Anima e di trovare modalità più funzionali per mediare le regole sociali con gli impulsi distruttivi attivati dall’Es. Un percorso di sostegno psicologico può aiutare la persona a contenere le angosce di abbandono mai riconosciute e mentalizzate e a identificare gli schemi mentali e comportamentali che si attivano di fronte alla percezione di tale perdita rappresentata dalla donna. Parallelamente quest’ultima può trovare nello psicoterapeuta un professionista in grado di accogliere la sofferenza derivata dall’abuso, di riconoscere i propri schemi disfunzionali basati sul modellamento e/o sulla dipendenza e a trovare strategie più idonee a salvaguardare il proprio benessere psicofisico.
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