Dott.ssa Benedetta Mulas
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Il complesso di inferiorità rappresenta un fenomeno ampiamente studiato da vari medici e psicologi, primo tra tutti Adler. Con questo termine si fa riferimento a una particolare credenza di base che guida il modo in cui alcune persone vedono sé stesse e gli altri. Il complesso di inferiorità influenza le relazioni sociali e il raggiungimento dei propri obiettivi di vita poiché diventano entrambi guidati da una visione distorta, che non tiene conto dell’effettivo potenziale umano.
Adler e il complesso di inferiorità
Alfred Adler ha fornito un importante contributo nella spiegazione dei processi che concorrono allo sviluppo di particolari processi che influenzano la visione di sé stessi. Lo psichiatra e psicoanalista austriaco ha elaborato un’interessante teoria relativa al complesso di inferiorità e alla sua evoluzione nel tempo, a partire dal suo apprendimento nel contesto sociale.
Secondo Adler tutti i bambini provano un naturale sentimento di inferiorità, ovvero una condizione di insicurezza che il piccolo avverte spontaneamente rispetto al suo ambiente di vita.
Effettivamente i primi stadi infantili sono associati a scarse abilità cognitive e motorie che obbligano il bambino a chiedere aiuto a persone adulte per il soddisfacimento dei propri bisogni. In questa fase gli altri sono naturalmente visti dal piccolo come più abili e competenti di lui.
Man mano che il bambino prosegue nel suo sviluppo psicofisico aumenta le proprie abilità e, se trova un ambiente favorevole, riesce gradualmente a superare tale visione sostituendola con una visione di sé come capace di muoversi nel proprio mondo.
Diversamente, nel caso in cui le figure significative non sono in grado di offrirgli un ambiente disponibile e sicuro, il bambino troverà nell’ambiente esterno esclusivamente condizioni utili a rafforzare il senso di inadeguatezza, confermato soprattutto dall’educazione genitoriale e dalle relazioni che caratterizzano il nucleo familiare. Se tali condizioni persistono, il complesso di inferiorità accompagna il bambino durante tutte le fasi di vita, trasformandosi in pensieri e credenze strutturate e pervasive che influenzano il modo di vedere sé stessi, le relazioni interpersonali e il mondo.
Tratti tipici e conseguenze comportamentali
Secondo Adler questa tendenza finisce con il caratterizzare lo stile di vita individuale: il senso di inferiorità rappresenta le radici di una visione che, nel tempo, influenza stabilmente l’evoluzione di pensieri ed emozioni.
Il complesso è legato a credenze disfunzionali che riguardano il proprio valore, l’immagine che la persona possiede rispetto alle proprie abilità e al potenziale umano e l’impossibilità di raggiungere i propri obiettivi. Da adulto possono comparire disturbi d’ansia legati soprattutto al confronto con l’altro, con il rischio di sviluppare fobia sociale e altre condizioni cliniche supportate da un’immagine di sé come inferiore e da una visione dell’altro come dominante e svalutante.
Le emozioni correlate sono legate alla sfiducia, alla tristezza e, talvolta, alla rabbia. Quest’ultima può guidare le relazioni interpersonali in modo differenziato, portando la persona ad isolarsi socialmente, o nei casi opposti, a esternare una sicurezza di fatto inesistente.
In particolare nella seconda opzione la persona può provare a superare il complesso di inferiorità compensando le proprie insicurezze attraverso una maschera di finta superiorità, basata su una falsa fiducia in sé stessa. Rientrano nel secondo caso la tendenza al perfezionismo, una forte intolleranza agli errori propri e altrui e la critica feroce nei confronti degli altri.
Il ruolo della psicoterapia nel superamento del complesso di inferiorità
Secondo lo psichiatra svizzero l’unico modo per superare il complesso di inferiorità è trovare il giusto equilibrio tra due forze insite nell’animo umano: il desiderio di sopravvivere imponendosi sugli altri e il sentimento sociale, ovvero il bisogno di appartenere alla comunità.
Il trattamento psicoterapico può aiutare la persona a superare il complesso di inferiorità e a ripristinare il corretto equilibrio tra queste due forze. Il setting, ovvero lo spazio clinico, può agire come un contenitore sicuro all’interno del quale la persona può sperimentare e finalmente prendere atto degli effetti reali legati a tale complesso.
Non di rado, infatti, le persone sono consapevoli di questo sentimento di inadeguatezza di base: lamentano difficoltà nel rapportarsi serenamente con gli altri e riscontrano importanti lacune rispetto alla propria autostima e al rispetto di sé.
Tuttavia nel tempo il complesso di inferiorità può agire come una lente appannata che impedisce loro di trovare collegamenti diretti tra le credenze di base e i conseguenti comportamenti. Il terapeuta può aiutarli a individuare tali credenze e i nessi causali con le azioni attuate. Nonostante il complesso di inferiorità possa strutturarsi in età giovanissima, infatti, è bene ricordare che questa visione si autoalimenta sulla base dei feedback ricevuti.
Il problema risiede proprio nella lente che utilizzano le persone con complesso di inferiorità, che le porta a interpretare erroneamente comportamenti e relazioni interpersonali, in quanto ogni azione viene ricondotta all’altro come un nemico pronto a svalutarlo e a dominarlo.
La psicoterapia in questi casi può rappresentare un valido aiuto in grado di offrire una lente alternativa e di convertire le dinamiche tipiche della relazione terapeutica in modalità interattive estese all’esterno del setting clinico. Lo scopo ultimo è la corretta sintonizzazione del sistema cooperativo: una spinta motivazionale carente in coloro che soffrono di complesso di inferiorità ma fondamentale per promuovere lo spirito di appartenenza e una visione positiva di sé.
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