Dott.ssa Benedetta Mulas
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L’archetipo del guaritore ferito rappresenta una metafora particolarmente utile nella pratica clinica, fornendo importanti linee guida nella relazione terapeutica duale. Tale metafora presa in prestito dalla teoria junghiana può essere applicata a vari ambiti che fanno parte della vita di ognuno di noi, proprio perché mira a sottolineare la continuità alla base della relazione terapeuta paziente e la natura umana di entrambi gli attori, fatta di ambivalenze, vittorie e sconfitte.
Dall’antica Grecia all’era moderna
Carl Gustav Jung, padre della psicologia analitica, ha fornito un importante contributo alla psicoterapia attuale e alla percezione del setting clinico. Lo psichiatra svizzero ha proposto una visione della terapia come percorso di individuazione personale, nel quale confluiscono le idee innate dell’inconscio collettivo espresse negli archetipi e i contenuti derivati dall’inconscio individuale.
Jung utilizzò l’archetipo del guaritore ferito per sottolineare l’ambiguità data dalla contemporanea presenza della forza e della vulnerabilità insite nella natura umana. Una fragilità che secondo il padre della psicoanalisi non può prescindere dal funzionamento individuale e relazionale, soprattutto se di natura terapeutica come quello che caratterizza le dinamiche psicologo-paziente. Questo archetipo è ispirato al racconto del centauro Chirone, personaggio della mitologia greca.
La storia narra che Chirone venne attaccato duramente durante uno scontro e subì una ferita incurabile nonostante le proprie conoscenze in campo medico. L’intera esistenza del centauro sembrava condannata a subire infinite sofferenze a causa della sua immortalità, fin quando Zeus, per compassione, lo salvò permettendogli di donare la propria immortalità a Prometeo.
Prima della sua morte, però, Chirone avviò un profondo percorso di conoscenza della propria sofferenza. La ricerca di un rimedio efficace lo portò ad entrare in contatto con varie erbe e possibili soluzioni che, prima di espirare, lasciò agli altri come deposito di conoscenze alle quali attingere, affinché questi ultimi potessero risolvere i propri problemi.
L’archetipo nella relazione terapeutica
Il racconto di Chirone può essere applicato alla relazione terapeutica non solo in ambito psicologico, ma coinvolgendo anche le relazioni d’aiuto e più in generale l’esistenza di ciascuno di noi. Per quanto riguarda il campo psicoterapico, Jung affermava che “il terapeuta può guarire gli altri nella misura in cui è ferito egli stesso”.
Questo approccio ribalta la concezione che predominava la società del tempo e che, per certi versi, ritroviamo in quella attuale, secondo cui il rapporto terapeuta-paziente prevede due figure con posizioni distinte. Diversamente, la visione junghiana e in particolare l’archetipo del guaritore ferito spostano invece l’attenzione su una relazione che si distacca dalla distinzione netta tra le due figure: l’impostazione gerarchica della relazione terapeuta e paziente viene sostituita da una visione più paritaria, che identifica entrambi gli attori come portatori di sofferenza.
L’archetipo sottolinea quindi la vulnerabilità presente in ognuno di noi come una componente intrinseca della natura umana da cui il terapeuta non può prescindere. Al contrario, è proprio dalla conoscenza di quest’ultima che derivano le competenze tipiche del guaritore ferito. Per merito della sua ferita lo psicologo è in grado di entrare in contatto con il proprio dolore: una condizione fondamentale per sintonizzarsi su quello altrui.
Tuttavia sotto certi punti di vista potrebbe sembrare che chiunque abbia provato il dolore sulla propria pelle possieda le stesse caratteristiche e competenze tipiche del terapeuta. Effettivamente il dolore rappresenta una costante nella vita di ognuno di noi, ma la differenza tra una persona qualsiasi e chi svolge le professioni di aiuto risiede, oltre nelle competenze acquisite nel proprio percorso di studi, nelle proprie esperienze di vita. Più precisamente, l’archetipo del guaritore ferito ci insegna che ciò che conta davvero non è la ferita in sé, quanto il rapporto che la persona riesce a instaurare con la sua ferita.
Rientrano in tale ambito le dinamiche messe in atto, i tentativi di soluzione con esito positivo o negativo, il rialzarsi, le abilità che ne derivano e, soprattutto, la successiva trasformazione. Un po’ come avviene nelle vicende di Chirone, che investe le proprie energie alla ricerca di una soluzione che successivamente lascerà in eredità agli uomini.
Il racconto ci aiuta anche ad identificare il terapeuta come portatore di fragilità che a sua volta richiede l’aiuto di un terapeuta esterno per fare i conti con le proprie debolezze. Questa osservazione che apparentemente potrebbe sembrare banale di fatto segna il confine che contraddistingue l’aiuto professionale: un limite che risiede proprio nella conoscenza e nell’ammissione delle proprie fragilità e nella successiva trasformazione. La contemporanea assunzione del ruolo di terapeuta e di paziente permette allo psicologo di entrare concretamente in contatto con il dolore dell’altro, poiché solo la conoscenza profonda delle proprie dinamiche interne consente di sintonizzarsi e di affrontare efficacemente la sofferenza dell’altro senza venirne sopraffatti.
Ed è proprio per merito di questa ambivalenza dei ruoli che un buon terapeuta dovrebbe imparare a non allontanarsi mai dall’idea di sé stesso come paziente. Una condizione necessaria per far emergere il potere che ogni suo paziente possiede quando, anche in fasi di grande dolore, riesce a trovare un guaritore cercando dentro sé stesso.
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