Dott.ssa Benedetta Mulas
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Il lavoro richiede a ciascuno di noi un grande impegno, per cui a fine giornata è piuttosto comune tornare a casa sentendoci stanchi e spossati. Ci sono alcuni casi però, in cui il lavoro si trasforma in una sorta di vampiro che risucchia le energie psichiche e fisiche della persona. Ciò accade soprattutto a coloro che rivestono importanti cariche o lavorano nel settore sociale e sanitario, con conseguenze che possono spaziare dal malessere allo sviluppo di importanti sintomi dissociativi come quelli tipici del Burnout.
Definizione e segni tipici della sindrome da Burnout
La parola burnout deriva dalla lingua anglosassone e può essere tradotta con diversi termini, quali “esaurito” o “bruciato”. Questa semplice definizione ci offre una prima panoramica delle caratteristiche tipiche della sindrome da burnout: un quadro clinico generato dal sovraccarico psicologico legato al lavoro, i cui sintomi rivestono la sfera affettiva, emotiva e comportamentale. Si tratta di una sintomatologia particolarmente frequente in coloro che rivestono ruoli carichi di responsabilità o operano nei contesti sociali che li portano ad assistere gli altri, come medici, infermieri o psicologi.
Non di rado il burnout interessa i caregiver di persone con malattie croniche o invalidanti. In entrambi i casi la sindrome è caratterizzata da un esaurimento emotivo associato a sintomi di depersonalizzazione e alla percezione di impotenza e scarsa autoefficacia, con conseguenze che ostacolano fortemente il funzionamento generale del soggetto, non solo in ambito lavorativo.
Sembra che la correlazione tra l’attività professionale e la comparsa dei sintomi sia associata a esperienze lavorative che mettono a dura prova l’integrità identitaria del soggetto. Di fronte a carichi di lavoro percepiti come eccessivi la persona dapprima proverà a impegnarsi in maniera controllata, per poi investire tutte le sue energie sul lavoro. Nelle fasi successive il carico lavorativo inizia ad essere percepito come eccessivo e la persona sente di aver superato il limite.
Progressivamente tale sensazione causa il distacco emotivo: situazioni professionali che fino a tempo prima viveva con passione, sembrano diventare parte di una vita che non gli appartiene. Le emozioni positive come la gioia e l’entusiasmo lavorativo vengono sostituite da ansia, rabbia e sintomi depressivi.
Oltre all’esaurimento emotivo il burnout invade altre due importanti dimensioni: quelle del cinismo e dell’inefficienza. Il lavoratore inizia ad assumere un atteggiamento freddo non solo nei confronti dei propri compiti professionali, ma anche a livello relazionale, con importanti ripercussioni sui risultati delle proprie performance.
La sintomatologia del burnout interessa anche la sfera cognitiva e psicosomatica ed è dominata da rigidità di pensiero, sensazione di fallimento e di immobilismo, unita alla comparsa di varie patologie come ulcera e cefalea.
Le cause alla base di una sintomatologia “contagiosa”
In realtà le cause del burnout non dipendono direttamente dalla persona in quanto la sindrome rappresenta una problematica di natura sociale, cui affluiscono alcuni tratti psicologici associati a una maggiore vulnerabilità.
L’ambiente lavorativo riveste un ruolo cruciale e spesso il problema principale risiede proprio nel mancato riconoscimento della natura umana dell’attività professionale. Alcuni elementi tipici di ambienti lavorativi ad alto rischio di burnout dei dipendenti sono rappresentati da richieste eccessive come il sovraccarico lavorativo, un’errata gestione dei processi operativi e il mancato riconoscimento o l’ingiustizia nei confronti delle risorse umane. Rientra in tale ambito anche il mancato riconoscimento di responsabilità personali ed economiche di coloro che in realtà svolgono attività che lo renderebbero necessario.
Maslach e Leiter hanno proposto un interessante modello che spiega la sindrome di burnout in termini di disadattamento tra persona e lavoro. A loro avviso tale disadattamento si evolve con l’aumentare del divario tra la natura del lavoro e quella della persona, inteso non solo in senso di sovraccarico operativo, ma anche in termini di valori, equità e ricompense congrue.
Gli autori hanno inoltre identificato alcuni fattori di rischio che coinvolgono la sfera organizzativa e personale. Rientrano nella prima categoria la scarsa retribuzione, la presenza di conflitti di ruolo, una turnazione lavorativa che non rispetta le esigenze personali e altri elementi organizzativi come l’attribuzione esclusivamente gerarchica dei processi decisionali.
Per quanto riguarda l’ambito personale alcune caratteristiche come l’introversione, l’errata credenza di essere indispensabili per gli altri, elevate aspirazioni professionali o personalità con forti tratti autoritari rendono l’individuo più vulnerabile a sviluppare questa sintomatologia.
Infine gli autori hanno sottolineato il ruolo di fattori di rischio di tipo socio demografico come l’età, lo stato civile e le differenze di genere, secondo cui soggetti di sesso femminile a inizio carriera e privi di relazioni affettive significative sarebbero più predisposti al burnout.
Trattamento del Burnout
La persona tende a imputare le cause del malessere e dei sintomi tipici del burnout a sé stessa, con forti ripercussioni sulla sfera dell’autostima e dell’umore. Quello che solitamente manca è una visione completa, che aiuti la persona a identificare chiaramente le problematiche e a ricondurne una buona parte all’ambiente lavorativo. La psicoterapia può contribuire in tale senso, fornendole gli strumenti per affrontare la problematica in modo esaustivo.
Tuttavia è bene sottolineare che il burnout rappresenta una problematica difficile da individuare e da trattare proprio perché tante conseguenze legate al malessere personale possono essere erroneamente scambiate per sintomi depressivi generici. Inoltre trattandosi di una problematica di natura sociale e non prettamente individuale, è bene operare parallelamente sul soggetto e sul contesto organizzativo, al fine di migliorare le condizioni dell’ambiente lavorativo.
Un altro dato sorprendente di cui tener conto è la natura potenzialmente “contagiosa” del burnout: una figura professionale con queste problematiche, infatti, può trasmettere il proprio malessere all’esterno e coinvolgere anche i propri colleghi, alimentando così un ambiente tutt’altro che produttivo.
Pertanto è bene operare innanzitutto con interventi preventivi e a livello istituzionale, creando momenti di confronto che permettano di far emergere le problematiche operative e di tener conto anche di quelle personali, ma anche di attuare proposte concrete per migliorare l’ambiente lavorativo e garantire una maggiore equità tra i colleghi e le rispettive mansioni.
Per quanto riguarda la psicoterapia, è bene agire sul singolo avendo cura di rafforzare il tessuto sociale di riferimento, valutando la possibilità di intraprendere terapie individuali o organizzare gruppi omogenei che trattino la stessa tematica.
In entrambi i casi la psicoterapia può aiutare la persona nel mettere a fuoco il proprio malessere e ricollocarlo in modo più oggettivo. Inoltre, la terapia favorisce l’acquisizione di importanti strumenti sia a livello pragmatico, come imparare a prendere pause e a ricalibrare obiettivi e aspettative professionali, sia a livello psicologico e identitario, aiutando il paziente a scardinare l’idea della propria indispensabilità e degli obblighi percepiti nei confronti dell’altro.
In tale senso può tornare utile anche l’apprendimento di tecniche di rilassamento e favorire una maggiore demarcazione tra sfera personale e professionale, aiutando la persona a isolare le problematiche lavorative senza “bruciare” anche l’influenza positiva che le relazioni significative rivestono nel benessere psicologico individuale.
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